Land grabbing africano made in Lussemburgo

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Piantagione in Sierra Leone. Foto: Fian Belgio

Osservatoro Diritti | 5 luglio 2017

Land grabbing africano made in Lussemburgo

Movimenti locali e ong internazionali accusano aziende del gruppo Socfin - posseduto al 38% dal gruppo Bolloré - di non rispettare i diritti di contadini e comunità. I principali punti critici sono mancanza di dialogo, accaparramento di terre, fiumi inquinati e poco lavoro

di Redazione 

«La piantagione si avvicina sempre di più alle nostre case. Non rispetta il nostro spazio vitale». Sono le parole di Guillaume Nyobe, responsabile comunicazione per l’organizzazione Synaparcam (Synergie National des Paysan et Riverain au Cameroun), che riunisce i contadini e gli abitanti dei villaggi impattati dalle coltivazioni agroindustriali in Camerun.

La piantagione a cui fa riferimento Guillaume Nyobe è gestita da Safacam (Société Africaine Forestière et Agricole du Cameroun), attiva nel paese dal 1897. Nata in epoca coloniale, la piantagione conta più di 5.000 ettari di palma da olio e altri 4.000 sono occupati da alberi della gomma. Safacam è una delle controllate del gruppo lussemburghese Socfin (Société financière des caoutchoucs), produttore di olio di palma e gomma in 10 paesi, tra Africa e Asia, per un totale di circa 190.000 ettari.

La società civile alla ricerca di un dialogo

Tra la fine di maggio e la metà di giugno, negli stessi giorni in cui si svolgeva l’Assemblea azionaria del gruppo Socfin, alcune ong internazionali e organizzazioni della società civile hanno protestato in quatto diversi paesi: Camerun, Francia, Sierra Leone e Lussemburgo. Le quattro mobilitazioni avevano come obiettivo l’avvio di un dialogo tra la compagnia e le popolazioni che vivono nei pressi delle piantagioni.

Le proteste sono cominciate a fine maggio a Douala, in Camerun, sono proseguite durante l’assemblea generale degli azionisti di Socfin in Lussemburgo e sono arrivate a giugno davanti al palazzo di Puteaux, in Francia, nel corso dell’Assemblea generale dei soci di Bolloré. Il gruppo francese del magnate Vincent Bolloré, infatti, è azionista al 38% di Socfin. In Sierra Leone la protesta ha preso la forma di un vero e proprio ultimatum, lanciato da una delle organizzazioni della società civile.

Camerun e Sierra Leone non sono gli unici paesi in cui la popolazione locale contesta le piantagioni del gruppo lussemburghese: sono attivi comitati di protesta anche in Liberia, Cambogia e Costa d’Avorio.

«In Liberia si sarebbe dovuta svolgere una manifestazione il 31 maggio, ma la direzione della piantagione locale ha accettato di fissare un incontro con i leader della protesta, quindi la mobilitazione è stata sospesa», spiega a Osservatorio Diritti Eloïse Maulet, responsabile in Camerun dell’ong francese ReAct.

L’organizzazione d’Oltralpe si occupa dal 2010 di seguire da vicino le comunità di Sierra Leone, Cambogia, Camerun, Liberia e Costa d’Avorio. ReAct, oltre ad accompagnare la popolazione locale nella risoluzione dei conflitti nati con le piantagioni, ha sostenuto la creazione di una rete, l’Alleanza Internazionale delle popolazioni impattate.

Socfin in Camerun

Il 31 maggio scorso a Douala, in Camerun, attivisti e abitanti dei villaggi confinanti con le piantagioni hanno organizzato una giornata di mobilitazione contro Socfin, per ottenere un dialogo con la compagnia. I manifestanti hanno chiesto il rispetto degli spazi vitali intorno ai villaggi e la messa in opera delle compensazioni previste dall’accordo: accesso all’acqua potabile, strade e posti di lavoro.

«Socfin non ci ascolta. Vorremmo avere un dialogo diretto e franco, ma loro rifiutano di parlarci. Si rivolgono ai nostri capi tradizionali, che non dicono mai di no. Dicono sempre sì», racconta Guillaume Nyobe.

All’origine dei conflitti tra l’azienda e la popolazione ci sarebbe la modalità con cui si sono conclusi gli accordi tra le società controllate da Socfin e lo Stato del Camerun.

Socapalm: i 20.000 ettari della discordia

Safacam non è l’unica società del gruppo ad operare in Camerun. Dal 1960 nel paese si è installata anche Socapalm, che fornisce circa il 70% dell’olio di palma di provenienza camerunese. L’accordo di concessione tra lo Stato e Socapalm risale al 2000 e ha subìto una modifica nel 2005. Proprio l’aggiornamento del contratto ha spinto l’organizzazione della società civile Synaparcam a chiedere la restituzione di 20.000 ettari di terra ai villaggi impattati.

A spiegare la vicenda a Osservatorio Diritti è Eloïse Maulet: «La prima concessione prevedeva 78.000 ettari per 60 anni ma, in seguito a proteste locali, il governo ha rinegoziato l’accordo nel 2005, riducendo il permesso a 58.000 ettari. Ci sarebbe dunque una differenza di 20.000 ettari tra il primo e il secondo documento».

Un aggiornamento che sembra essere rimasto sulla carta. «Dei 20.000 ettari che dovevano essere restituiti, sono tornati nelle mani delle popolazioni solo poche centinaia». Secondo Eloïse Maulet, «il problema è che non sono chiari i confini delle concessioni e quindi la popolazione locale non conosce le dimensioni di ciascuna piantagione».

Spazi ristretti, fiumi inquinati e poco lavoro

Tra le problematiche più sentite dalla popolazione locale c’è la restrizione degli spazi vitali che, come spiega la responsabile di ReAct in Camerun, «dovrebbe prevedere, secondo il contratto di concessione, 250 ettari e un processo di consultazione con le comunità».

«In alcuni villaggi non ci sono neanche due metri di distanza tra le case e la piantagione. Gli abitanti chiedono spazio per le loro colture alimentari» aggiunge Eloïse Maulet.

I membri di Synaparcam parlano anche di inquinamento dei corsi d’acqua, che vengono utilizzati quotidianamente dalla popolazione locale per lavarsi. «Dopo insistenti richieste, Socapalm sta preparando un nuovo studio di impatto ambientale» spiega l’ong ReAct.

«Abbiamo molti problemi, uno dei maggiori è la mancanza di lavoro. Questa impresa si è installata da noi, ha preso le nostre terre, ma non ci ha dato lavoro» denuncia a Osservatorio Diritti Guillaume Nyobe. Secondo i dati di Safacam, nelle piantagioni sono impiegate quasi 3.000 persone. In molti casi si tratterebbe di lavoratori che provengono da altre zone del paese o di braccianti giornalieri nei periodi di picco della manodopera, come durante il raccolto.

A sostenerlo è il responsabile comunicazione di Synaparcam. Che aggiunge:

«Più della metà dei giovani del mio villaggio che lavorava per Safacam ha abbandonato perché il lavoro è molto duro e i salari non sono buoni. Guadagnavano circa 30.000/40.000 franchi al mese (45/60 euro)».

Secondo Guillaume Nyobe, proprio la mancanza di un lavoro stabile sarebbe causa di numerosi furti nelle piantagioni di Safacam. «Quando i responsabili della sicurezza della piantagione sorprendono gli abitanti dei villaggi a rubare i grappoli di palma, li arrestano e poi li mandano dal capo del dipartimento che li mette in prigione».

Guillaume Nyobe abita proprio in uno dei villaggi che confina con la piantagione e descrive così il clima all’interno della sua comunità: «Questa situazione ci divide. Un gruppo sostiene la decisione del capo tradizionale e un altro è contrario alla piantagione. La concessione ha diviso anche delle famiglie al loro interno: tra fratelli, tra padri e figli».

In Sierra Leone qualcosa si muove

Il 7 giugno scorso il ministro dell’Agricoltura della Sierra Leone avrebbe chiesto la revisione dell’accordo di concessione delle terre tra lo Stato e Socfin. Nell’intervista, comparsa su un giornale locale, Il ministro spiega che all’origine della decisione ci sarebbe la volontà di rivedere al rialzo i costi dell’affitto dei terreni, considerati troppo bassi.

Non ci sono conferme, per ora, che le parole del membro del governo possano trasformarsi in azioni concrete. Negli ultimi mesi, però, si è mosso anche il capo di gabinetto del presidente della Repubblica. L’alto funzionario ha organizzato incontri tra le associazioni della società civile, l’azienda e il capo tradizionale e ha promesso un incontro anche nel territorio di Malen, nel Sud del paese, dove si trovano le comunità impattate dalle piantagioni.

All’inizio del mese di giugno è scaduto anche un ultimatum di 21 giorni lanciato da una delle associazioni locali: la Malen Youth Development Union (Mayodu), composta da lavoratori della piantagione e da abitanti della zona. I membri di Mayodu chiedevano di poter discutere con Socfin migliori condizioni di lavoro, installazioni per l’elettricità nei villaggi, infrastrutture idriche e la manutenzione delle strade.

«L’assenza di risposte da parte della direzione locale ha generato alcune azioni di protesta a Malen», racconta ad Osservatorio Diritti Manuel Eggen, dell’ong Fian Belgium. E aggiunge: «I nostri contatti locali ci hanno riferito che sarebbe intervenuta la polizia, i leader della protesta sarebbero stati arrestati e liberati dopo qualche giorno».

Le comunità di Malen vogliono ridiscutere gli accordi

I primi movimenti di protesta locali, rappresentati da Maloa (Malen Affected Land Owners and Land Users Association), sono nati nel 2011, con l’installazione della compagnia sul terreno, come spiega Manuel Eggen: «Hanno denunciato da subito la mancanza di trasparenza e l’assenza di un consenso delle comunità». All’origine del conflitto ci sarebbero responsabilità dell’impresa, del governo e delle autorità locali.

La concessione del 2012 prevedeva l’affitto di 12.000 ettari di terra agricola in diversi distretti del paese, di cui 6.500 nella zona di Malen. «A firmare l’accordo per l’affitto dei terreni è stato il Paramount Chief, il capo tradizionale, senza che le comunità fossero state informate dettagliatamente di quello che sarebbe successo e senza che avessero un vero potere negoziale», dice Manuel Eggen.

I rappresentanti di Maloa chiedono la revisione dell’accordo tra lo Stato e Socfin. Il nuovo documento dovrebbe prevedere l’aumento del costo di affitto delle terre, la definizione collegiale dei terreni a disposizione della compagnia e l’entità delle compensazioni ai contadini per i raccolti andati perduti nelle fasi di installazione.

Diritti umani: un appello caduto nel vuoto

Nel dicembre del 2012 le comunità di Malen si soro rivolte alla commissione per i Diritti umani della Sierra Leone, che ha avviato un’indagine sul campo e un processo di dialogo tra i diversi attori.

Manuel Eggen ha raccontato a Osservatorio Diritti il suo incontro con i membri della commissione:

«Mi hanno spiegato che, nella fase di mediazione, hanno avuto molti problemi a contattare il ministero dell’Agricoltura e il direttore locale di Socfin. Il direttore inizialmente aveva accettato l’incontro, ma voleva che la riunione si svolgesse nei suoi uffici e la commissione si è rifiutata. Così il dialogo si è arenato».

Non sempre le visite sul terreno sono ben volute dalla compagnia. Nel 2016 proprio al rappresentante di Fian è stato impedito di recarsi nella zona della piantagione. «Ho ricevuto un ordine di polizia che mi impediva di recarmi presso le comunità». Le scuse ufficiali addotte dalla polizia sono state: una visita presidenziale nella zona di Malen, prima, e la mancanza un permesso specifico per le ong che operano sul territorio, poi.

Socfin e Bolloré reagiscono alle accuse di land grabbing

Nel 2016 Socfin ha adottato una “Politica di Gestione Responsabile”, nella quale si impegna a rispettare i diritti delle comunità locali e il loro consenso previo, libero e informato. Nel documento si assume la responsabilità di non avviare nuove operazioni con il permanere di conflitti e prevede una maggiore attenzione ambientale nelle piantagioni.

«Il lato positivo è che, grazie alle nostre pressioni, la compagnia ha adottato questo nuovo documento, ma ci dispiace vedere che, nei fatti, non ci sia stato un vero cambio di atteggiamento. Si rifiutano di incontrarci in Europa e rimandano la gestione dei conflitti a livello locale», spiega il responsabile di Fian.

«Non c’è, e non c’è mai stato, accaparramento delle terre da parte nostra», è quanto ha scritto la compagnia in un comunicato all’indomani di una delle iniziative di protesta organizzate dalle ong internazionali in Europa. Il gruppo lussemburghese nel documento sostiene di essere in contatto costante con la popolazione che vive nei pressi delle piantagioni e di aver garantito loro l’accesso a servizi sociali, scuole e ospedali. Socfin ha definito «menzogne» le accuse delle ong di non rispettare i diritti delle comunità e ha dichiarato che «le popolazioni locali non si riconoscono nelle mobilitazioni delle ong».

I primi di giugno, durante l’azione di protesta davanti alla sede del suo gruppo, lo stesso Vincent Bolloré, almeno a parole, si è impegnato a promuovere un incontro tra Socfin e i rappresentati dei villaggi impattati dalle piantagioni. Già nel 2014 il colosso francese aveva fatto da mediatore tra i rappresentanti delle comunità locali e l’azienda, ma all’incontro la compagnia lussemburghese non si era presentata.

Il gruppo Bolloré ha sempre rigettato le accuse di accaparramento delle terre e rimandato la responsabilità della risoluzione dei conflitti a Socfin. Sono numerose in Francia le cause per diffamazione avviate da Bolloré, che vedono sul banco degli imputati giornalisti e blogger che hanno parlato di land grabbing.

L’Ocse getta la spugna

Il 15 giugno sul caso Socapalm si è pronunciato anche il Punto di contatto Nazionale (Pcn) belga dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. L’organo era stato interpellato come mediatore, nel 2010, dall’organizzazione francese Sherpa per l’impatto delle attività di Socapalm in Camerun.

Secondo il documento finale emesso dall’organo nazionale belga il gruppo, Socfin metterà in pratica solo una parte del piano d’azione definito nel 2013. Il Pcn, inoltre, constata il rifiuto della compagnia di avviare controlli indipendenti, accettati dal gruppo Bolloré.

Nel testo si legge anche che «nonostante i progressi fatti da Socfin nella Responsabilità sociale d’impresa, i risultati sul campo si fanno attendere, in particolare in Camerun». Il piano di azione del 2013 cui fa riferimento il Pcn prevedeva, tra le altre cose, di rafforzare il dialogo tra la compagnia e le comunità locali, di indennizzare i contadini che hanno perso le proprie terre e di facilitare l’accesso all’acqua potabile, alle cure e all’elettricità per tutti.

A conclusione il ramo belga dell’Ocse ha invitato il gruppo Socfin a rispettare i principi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico riguardanti alimentazione e agricoltura e a mantenere aperto il canale di dialogo con le collettività locali.

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