Land Grabbing: il nuovo colonialismo?

10-1-2013, Cronache Internazionali
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Nigeria del Sud - I soldati e poliziotti di Forza Congiunta hanno fatto irruzione nei villaggi di alcune comunità di etnia Ogoni nella regione del Delta del Niger. Tra i 16 arrestati, per poche ore anche una donna con il suo bambino. Secondo il resoconto fatto da Nnimo Bassey, presidente della Ong Environmental Rights Action, “l’unica colpa” dei contadini sottoposti all’intervento delle forze dell’ordine è l’aver “divelto dei banani piantati nel loro terreno senza permesso”. Gli agricoltori nigeriani contestavano la decisione del governo di svendere 3000 ettari di terreno ad una società messicana interessata, appunto, a creare una piantagione di banani. Le comunità Ogoni sono tra le più colpite al mondo dal fenomeno del land grabbing, con specifico riferimento alla produzione di petrolio. Secondo uno studio delle Nazioni Unite, ci vorranno circa 30 anni per rimediare ai danni ambientali causati nel Delta del Niger dalla Royal Duch Shell e dalla società locale National Petroleum Corporation. Amnesty International , nell’appello “Clean Up Oil Pollution In The Niger Delta”, conclusosi nel 2011 con 6047 firme, ha intimato al governo nigeriano di implementare la regolamentazione dell’industria del petrolio, al fine di assicurare il rispetto dei diritti umani da parte delle aziende operanti a livello locale e internazionale. Nella campagna “Strappa un impegno a Eni”, la stessa Ong preme perché le imprese operanti nella regione dell’Ogoniland, in particolare Eni, Total e Shell, si assumano le proprie responsabilità in materia di inquinamento ambientale e violazione dei diritti umani.

Diritti in vendita - Secondo Slow Food, il fenomeno del land grabbing, o accaparramento di terre, interessa oltre 60 paesi in Africa, America Latina, Asia, Oceania, Europa dell’Est. Si tratta dell’appropriazione o acquisto, da parte di governi o imprese multi-nazionali, di vasti terreni locali mediante operazioni di leasing finanziario. Le motivazioni degli acquirenti sono due: ricerca di appezzamenti che facilitino la produzione a costi bassi da parte delle aziende private; persecuzione della sovranità alimentare per la propria nazione in terra straniera, come nel caso di paesi emergenti, tra i quali Brasile e Russia. Secondo l’International Land Coalitation, il 37% degli investimenti inerenti al land grabbing sono orientati alla produzione di bio-carburante, l’11% al settore agricolo e l’8% all’estrazione di minerali o al ricavo di legno come materia prima.

Il land grabbing cominciò ad assumere un peso rilevante nell’atlante geo-politico a partire dalla crisi economico-alimentare globale del 2007-2008. Sempre secondo quanto rilavato nelle analisi dell’ILC, in 10 anni sono stati 203 i milioni di ettari di terreno ceduti o affittati (da 40/50 anni fino a 99 anni) nel corso di questa “razzia” legalizzata. Una grandezza pari a 7 volte quella della penisola italiana. Quegli stessi 203 milioni di ettari di terreno non sono il regno della “natura selvaggia”, com’è nell’opinione, ben evidenziata dal giornalista Fred Pearce nel suo libro The Land Grabbers, delle imprese operanti nel business del turismo internazionale, con particolare riferimento a safari e caccia in Africa. I terreni “rubati” sono piuttosto la fonte di sostentamento di vaste comunità di popolazioni indigene in tutto il mondo, per i quali la privazione della terra che abitano tradizionalmente da secoli si traduce nella negazione di acqua e cibo e, dunque, dei diritti fondamentali, in primis quello alla vita. Non ci sono perciò norme ancora da scrivere, ma solo meccanismi già presenti nella legislatura sovra-nazionale da rendere operativi, come ben argomenta Marcella Distefano, docente di diritto internazionale a Messina: “La strada giusta è quella delle norme consuetudinarie, vincolanti. Come la tutela dei diritti fondamentali (riconosciuti anche dai patti dell'Onu del '66, ndr).”

Il 70% dei territori interessati da land grabbing si trova in Africa. Caso esemplare è la situazione critica delle comunità Masai in Tanzania, nella regione del Serengeti. Ancora secondo Fred Pearce, il Serengeti è diventato il più grande “zoo del mondo, di cui i Masai non sono altro che una decorazione”. Secondo l’AFP, tra i casi più recenti vi è il progetto dell’azienda Senhuile-Senathol di impiantare una monocoltura di patate dolci su 20.000 ettari (più o meno la grandezza della provincia di Trieste) nella regione del Ndiael, al fine di produrre bio-carburanti. Ancora, l’Etiopia. Dal 2007 gli Emirati Arabi hanno rifornito i loro hotel di lusso con ortaggi provenienti da serre etiopi, oltre a installare monocolture per alimentazione e agrocarburanti in tutto il paese e in totale accordo con l’allora ministro Meles Zenawi. Secondo le lamentele dei contadini di questa nazione del Corno d’Africa, storicamente interessata da catastrofiche carestie, quei terreni erano tradizionalmente utilizzati per la pastorizia, attività centrale degli indigeni etiopi a livello tanto economico quanto culturale. Storie simili, che intrecciano lo shock sociologico da integrazione a problematiche inerenti agli indici di sviluppo umano, si incontrano inoltre in Mozambico, in Senegal e in molti altri luoghi del continente africano, tutti segnati da condizioni critiche in materia di accesso ai bisogni primari per gran parte della popolazione: punti critici nei quali il land grabbing ha già assunto un ruolo centrale in qualità di circostanza aggravante.

“Che Fare?” - Elisa Alimone Mongue, mozambicana: coltivava zucche e cocomeri. Adesso il suo governo ha concesso la terra in cui è nata e vissuta ad un’azienda straniera, mentre lei ha ancora 9 figli da sfamare. Shafii Atnumani, quattordicenne tanzaniano: il pozzo da cui attingeva l’acqua è stato recintato. Ogni giorno il gesto di prendere l’acqua gli costa ore di lungo cammino a piedi. Seleman Paz, anche lui tanzaniano: il cimitero dove si recava per pregare i suoi avi è adesso occupato da un’immensa coltivazione volta alla produzione di bio-carburanti. Queste sono le storie di donne e uomini che la preziosa rivista periodica di Slow Food sceglie come protagonisti del cambiamento. La mobilitazione delle associazioni non governative di tutto il mondo al fianco della ribellione delle vittime del land grabbing non ha carattere sentimentale, ma si basa sulla rivendicazione del rispetto, da parte di governi e imprese multi-nazionali, del fondamentale diritto alla vita di ogni individuo: si tratta, dunque, di una pratica che determina situazioni contrastanti con le norme di diritto internazionale. Questa violazione dei diritti è scritta fra le righe delle etichette di prodotti alimentari in tutto il mondo, ed è sotto gli occhi di tutti i partecipanti al meccanismo globale dell’interdipendenza economica, proprio della società dei consumi nell’era contemporanea. Slow Food ha lanciato una campagna mondiale nel 2010: ‘Avaaz, un appello per fermare “la svendita del Sergeti” e tutelare le popolazioni Masai’. Portali web quali Il Cambiamento, Nigrizia, e, ovviamente, la sezione on-line di Slow Food internazionale, monitorizzano la situazione in continua evoluzione del land grabbing nel mondo. Firmare, informarsi, passare parola. Perché i responsabili hanno “nome, cognome e indirizzo.”
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