Re:Common | 23-03-2015
SENEGAL, IL CASO SENHUILE NON ACCENNA A PLACARSI
di Giulia Franchi
Senhuile SA, il controverso e contestassimo consorzio agro-alimentare italo-senegalese di proprietà del Gruppo Finanziario Tampieri di Faenza è finito di nuovo sotto i riflettori. Nemmeno questa volta si tratta di una buona notizia.
Dopo l’imbarazzante licenziamento e poi l’arresto in Senegal nel giugno 2014 dell’allora amministratore delegato Benjamin Dummai per appropriazione indebita di circa mezzo milione di dollari, la Tampieri è corsa ai ripari per salvare faccia e investimento, operando un decantatissimo cambio della guardia nella gestione del progetto.
Dopo un grande sforzo comunicativo, i manager di Faenza hanno reso operativa la solenne dichiarazione rilasciata alla stampa all’indomani dell’arresto di Dummai, cioè la necessità per l’Italia di riprendere il controllo del progetto da vicino, e in sostanza di mettere le pezze laddove la “vecchia gestione” aveva seminato malessere, malcontento e, soprattutto, buchi di bilancio.
Purtroppo, nonostante gli sforzi e i sorrisi, il “progetto in Senegal” continua a non far dormire sonni tranquilli all’Amministratore Delegato del Gruppo Tampieri, e soprattutto a non piacere affatto al Collettivo per la difesa delle terre dello Ndiael, che si batte sin dall’inizio contro la sottrazione di terra che esso comporta.
“La concessione dei 20mila ettari occupati da allevatori e coltivatori del Nord del paese alla compagnia Senhuile è stato un errore storico”, ha dichiarato il Collettivo in una lettera inviata al presidente della Repubblica del Senegal nell’ottobre dello scorso anno, per chiedere il suo immediato intervento affinché sia restituita la terra a chi può sopravvivere solo grazie ad essa.
Quasi a dire, inutile cercare di aggiustare qualcosa che è stato pensato, sviluppato, e costruito male dall’inizio, come descritto da Maura Benegiamo e Davide Cirillo nel loro rapporto dettagliato sul caso, pubblicato lo scorso ottobre e scaricabile QUI.
Ma le rogne per la “nuova gestione” non sono finite. La decisione di licenziare più di 80 persone, motivata anche questa con la necessità di “raddrizzare” le scelte sbagliate della “vecchia gestione”, ha suscitato le proteste dei lavoratori, e l’interesse della Confederazione Democratica dei Sindacati Liberi del Senegal (Cdsl). Durante una visita nella Regione di Saint Louis, dove ha sede l’impresa, il Segretario Generale della Confederazione ha deplorato le difficili condizioni di lavoro dei dipendenti. Ha inoltre lanciato un appello alle autorità affinché reagiscano rapidamente per consentire ai dipendenti di consolidare le loro posizioni.
Ma a non convincere affatto, e a infiammare la protesta, è la scelta dell’impresa di licenziare i suoi lavoratori per motivi economici, dopo aver aumentato il suo capitale sociale da 10 milioni a 3 miliardi di franchi CEFA (da circa 15mila a circa 4,5 milioni di euro). “Goffaggine o incoerenza?” si domanda la stampa locale.
Mentre la “nuova gestione” è ancora intenta a trovare risposte adeguate a stampa e proteste locali, arriva l’ultima bomba.
Benjamin Dummai, l’uomo forte della vecchia gestione, funzionale per un po’ alla costruzione dell’architettura complessa di scatole societarie che conducevano fino a Panama e che avevamoraccontato qui, non ci sta ad essere l’unico capro espiatorio e contrattacca.
Dopo mesi di silenzio e con una mossa inattesa, cita in giudizio il Gruppo Finanziario Tampieri e la Senhuile S.A. con 14 capi di accusa che vanno dall’aumento fittizio del capitale sociale a fini fraudolenti, al riciclaggio di denaro, fino alla frode e all’emissione azionaria fittizia.
Per questa battaglia Dummai sceglie di farsi rappresentare da un avvocato d’eccezione, Cledor Cire Ly, già impegnato nella causa del figlio dell’ex presidente senegalese Karim Wade, arrestato nel 2013 con l’accusa di aver accumulato illecitamente 1,4 miliardi di dollari durante i 12 anni di potere di suo padre.
Ironia della sorte, Cleodor Cire Ly è però anche l’avvocato dei lavoratori licenziati da Senhuile, che difficilmente, viene da pensare, potrebbero essere in grado di pagare le stesse parcelle di Karim. Gli stessi lavoratori, peraltro, che nelle proteste post licenziamento chiedevano a gran voce il ritorno di Dummai.
Quando avevamo cominciato a raccontare questa storia, un paio di anni fa, a fianco e in sostegno alle comunità locali in lotta contro l’ennesimo abuso sui loro territori, non avremmo mai pensato che la saga avrebbe raggiunto proporzioni di questo tipo, e che gli interessi fossero tali e tanti.
Era altrettanto inimmaginabile che due anni di lavoro, invece di aiutarci a trovare risposte, ci avrebbero condotto a porci ancora più domande.
Al perché fosse necessaria una struttura societaria così oscura per produrre agro-combustibili, (poi olio di girasole, poi riso, poi mais, poi arachidi etc etc..) nessuno ha mai voluto rispondere. Al perché siano state aperte e poi chiuse negli anni una decina di società tra Italia e Senegal in qualche modo legate a questo progetto, neppure.
Chissà se alla luce degli ultimi sviluppi Tampieri, o Dummai stesso tramite il suo illustre avvocato, saranno interessati a spiegare qualcosa in più di questa storia.
Non tanto a noi, quanto agli allevatori della Regione di Saint Louis, costretti a sopravvivere pagando le conseguenze di questo tiro alla fune tra “nuovo” e “vecchio”, ma per i quali questo spartiacque poco conta dato che il progetto non lo volevano com’era da vecchio, non lo vogliono ora e non lo vorranno nemmeno nella sua versione “rinnovata”.
E’ a loro che sono dovute le spiegazioni, a loro che si oppongono quotidianamente a chi, reiteratamente, sembra non prendere sul serio gli effetti delle proprie azioni sulle loro vite. Che si tratti di politici e affaristi senegalesi o di imprenditori goffi o senza scrupoli nostrani.