Il business del land grab in Africa

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Il Manifesto | 10/07/2012

Il business del land grab in Africa

di Giulia Franchi

L’accaparramento di terre sta diventando una iattura per troppi Paesi africani. Sono sempre più numerosi i rapporti prodotti da autorevoli realtà della società civile internazionale che denunciano abusi e impatti tragici legati al fiorente business del land grab. Human Rights Watch in una sua recentissima pubblicazione esamina la disastrosa situazione delle comunità pastorizie della bassa valle del fiume Omo, al confine tra Etiopia e Kenya.

Con una missione sul campo, i ricercatori della Ong hanno potuto constatare che il governo di Addis Abeba ha scacciato migliaia di persone dalle loro terre, senza consultarle, né compensarle. Il tutto per far posto, su un territorio di circa 100mila ettari, a piantagioni di canna da zucchero. Un po’ come successo nella regione occidentale di Gambella nei mesi passati, anche nella valle dell’Omo coloro che si opponevano alle decisioni delle autorità sono stati fatti oggetto di arresti arbitrari, violenze e intimidazioni di ogni sorta.

In un altro recente rapporto di Friends of the Earth International, si prende in esame il caso ugandese dell’Isola di Bugala, sul lago Vittoria. Nel 1998, 10mila ettari sono finiti nelle mani di investitori privati al fine di coltivare palma da olio, anche grazie a un finanziamento di dieci milioni di dollari fornito dall’International Finance Corporation, il ramo della Banca mondiale che presta ai privati. L’operazione si è svolta a danno delle comunità rurali della zona, i cui diritti consuetudinari sulla terra sono stati palesemente violati, sebbene in Uganda essi siano formalmente riconosciuti dalla Costituzione.

Compromettendo i principali mezzi di sussistenza delle comunità di piccoli produttori locali si mette a forte rischio la loro sicurezza alimentare, dal momento che vengono resi dipendenti dagli aiuti umanitari (come in Etiopia), o dalle importazioni di cibo (come nel caso degli isolani di Bugala). Il filo rosso che unisce queste storie è quindi l’incremento dell’indigenza per le popolazioni locali. È curioso che tra i principali responsabili del fenomeno dell’accaparramento di terre continui ad emergere la Banca mondiale, prima istituzione deputata alla riduzione della povertà su scala globale.

Che lo facciano co-finanziando programmi di “villaggizzazione” come in Etiopia, o sostenendo lo sviluppo di piantagioni di palma da olio come in Uganda, i banchieri di Washington giocano un ruolo cruciale nel land grabbing globale. Che si avvalga di servizi di consulenza (FIAS) per far modificare le legislazioni locali a favore degli investitori stranieri, o dell’Agenzia Multilaterale per la Garanzia degli Investimenti (MIGA) per preservare da potenziali rischi i capitali investiti, o ancora che elabori i Principi per l’Investimento Agricolo Responsabile (RAI) per dare una veste di sostenibilità a tutto l’affare, la World Bank porta su di sé il peso delle conseguenze che queste operazioni provocano sui territori e sulle popolazioni che li abitano.

Il land grabbing inibisce l’accesso alla terra e alle risorse ad essa collegate per le comunità locali; rivendica la validità di un modello agroindustriale, che nei fatti continua a produrre sempre più povertà e distruzione ambientale; vincola la produzione agricola all’esportazione invece che destinarla al mercato interno, replicando ciò che ha reso gli impatti delle varie crisi alimentari così devastanti per i piccoli produttori di cibo. Inoltre finge di poter compensare la perdita della terra con la creazione di alcuni posti di lavoro e allontana sempre di più la prospettiva di una riforma agraria redistributiva che le organizzazioni contadine e i movimenti sociali di tutto il mondo continuano da decenni a rivendicare a gran voce.

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