Land grabbing, così emiri e cinesi si comprano il futuro della terra

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La Stampa| 5 March 2015

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Photo: Reuters
Land grabbing, così emiri e cinesi si comprano il futuro della terra

L’ultima cosa che ci si potrebbe aspettare, mentre si è alla guida di un fuoristrada su una pista nella savana dell’Africa occidentale, è un messaggio sul cellulare che dia il benvenuto nel territorio degli Emirati Arabi Uniti. Accade in Tanzania, dove un generale degli Emirati ha acquistato diritti di caccia esclusivi su un parco di 400 mila ettari. E lo ha trasformato in una sorta di enclave territoriale. Strettamente sorvegliata. «Non filtrano molte notizie, ma ho sentito di unità paramilitari spedite dal governo di Dodoma per impedire che i Masai in cerca di pascoli si avvicinino alla riserva privata» racconta Fred Pearce, scrittore e giornalista britannico, pluripremiato per le sue inchieste sull’ambiente. Pearce è l’autore di “The Land Grabbers” (Beacon Press), libro in cui documenta l’estensivo accaparramento di terre coltivabili ai quattro angoli del globo da parte di fondi sovrani, multinazionali del cibo, agenzie governative e speculatori rapaci. Un fenomeno imponente ed elusivo, difficile da tracciare. Che sta cambiando gli equilibri - alimentari e ambientali - del pianeta. E che non riguarda solo i paesi più poveri. 

Di recente, un gruppo di deputati tedeschi ha denunciato le trattative per la cessione di vaste aree del territorio ucraino, condotte all’ombra della guerra. Che coinvolgono multinazionali del cibo transgenico, come la Monsanto. Investimenti a rischio, certo, ma a prezzi ribassati. Secondo Farmlandgrab, un osservatorio web sulla corsa ai terreni agricoli, 17 milioni di ettari in Ucraina sono già controllati da imprese straniere, più della metà del territorio coltivabile. Proprio in Ucraina, nel 2013, l’agenzia governativa cinese Xpcc (Xinjiang Production and Construction Corp nell’acronimo inglese) ha ottenuto un leasing di 50 anni su tre milioni di ettari. Probabilmente il più grande caso di “land grab” registrato. Perché la maggior parte delle grandi transazioni sono opache. Soprattutto nei contratti tra le agenzie dei governi, che decidono sul destino di regioni grandi come stati e di intere popolazioni, a loro insaputa. E i conflitti spesso accompagnano le vendite. Come è successo in Liberia, il primo stato libero dell’Africa - e uno dei più tormentati, nella storia recente. Le cessioni di terreni cominciano sul finire della guerra civile. «All’inizio, c’è stata una discreta cooperazione tra le società che gestiscono le piantagioni e gli impianti per la produzione di olio di palma e le comunità locali. Ma i rapporti ora si sono deteriorati» spiega Pearce. 

Avere le cifre esatte del “land grabbing” è impossibile. I contratti trasparenti sono solo la parte emersa dell’iceberg. L’Oxfam, che ha denunciato il fenomeno in diverse campagne di sensibilizzazione, ha stimato in più di due milioni di chilometri quadrati le terre sottratte, di cui i due terzi in Africa. Land Matrix, piattaforma indipendente nata per monitorare questi immensi passaggi di proprietà, ha contato 1037 contratti conclusi per oltre 38 milioni di ettari. Ma sono elencate solo le trattative “in chiaro”. «I contratti vengono stipulati, cancellati, ristrutturati, trasferiti. A volte, la quantità di terra è di gran lunga maggiore di quella descritta nei contratti» ragiona Lorenzo Cotula, ricercatore dello Iied (International Institute for Environment and Development). «Non solo: anche se l’accordo non viene chiuso e il terreno non è sfruttato, l’accesso continua ad essere negato a lungo alle genti locali». Infatti: a fianco dei numeri ci sono le storie. Che parlano di esodi forzati di popolazioni intere dalle loro terre ancestrali. Come nella valle dell’Omo, in Etiopia, dove le tribù che restano vivono in un clima di intimidazione continua da parte dell’esercito. Come in Laos e in Cambogia, dove le compagnie vietnamite della gomma continuano ad espandere le loro piantagioni. In Kenya, i diritti sui terreni sono tanto confusi che villaggi, scuole, intere comunità si sono ritrovate all’interno di recinti alzati di sorpresa, in poche ore.  

Sono le “anime morte” della corsa alla terra. In molti paesi dell’Africa e dell’Asia non compaiono neppure nei registri civili. «Il land grabbing rischia di avere un impatto maggiore del cambiamento climatico sull’ambiente e sulla vita dei più poveri» denuncia Pearce. In che modo? «E’ semplice. Essere privati della terra è un danno immediato. Poi ci sono quelli a medio e lungo termine. Lo sfruttamento intensivo di grandi aree agricole porta a un impoverimento delle risorse idriche. Il paesaggio viene cancellato. E la deforestazione accompagna il land grabbing». Secondo un rapporto di Land Coalition, le aree coperte da foresta (e progressivamente deforestate) costituiscono un terzo delle cessioni di terreni. Lo stesso rapporto mostra che la corsa all’accaparramento continua anche se ha subito un rallentamento apparente dopo il picco del 2009. «La caduta dei prezzi nel settore alimentare ha allontanato gli speculatori. Ma sono rimaste le multinazionali e gli stati, che continuano a comprare per costituire riserve alimentari nel lungo termine» ribadisce Pearce. In Cina, la Xinjang è un’agenzia semi-militare, con gerarchie di comando, corpi di ingegneri e agronomi. In Asia centrale, i terreni acquistati dalla Xpcc sono stati sottoposti alla coltivazione intensiva di soia transgenica che li ha impoveriti. Tra i grandi buyers ci sono anche gli Usa, i paesi arabi del Golfo, l’Europa; e il Brasile e l’Egitto che acquistano larghe porzioni di terreno negli stati confinanti.  

C’è chi ha parlato di neo-colonialismo. «Assomiglia al primo colonialismo mercantile, quello delle Compagnie delle Indie inglesi e olandesi - sostiene Peirce. - Il primo passo è rendere trasparenti le transazioni e mobilitare l’opinione pubblica dei paesi ricchi su questo nuovo modello di sfruttamento. Oggi perfino la Cina ha un movimento ambientalista molto attivo».  
 
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