Land grab in Senegal, responsabilità italiana

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Pagina 99 | 03 marzo 2014

Land grab in Senegal, responsabilità italiana

MARINA FORTI

Un'impresa di Ravenna, il Gruppo Tampieri, investe in terre nel paese africano. E una popolazione perde l'accesso a pascoli e acqua.

La riserva naturale del Ndiaël, nel nord del Senegal, è la scena dell'ennesimo conflitto per la terra: da un lato un gruppo industriale che ottiene decine di migliaia di ettari in concessione dallo stato per investire in piantagioni, dall'altro le comunità locali di coltivatori e allevatori tradizionali che si trovano senza più accesso alle terre necessarie a vivere. E' un tipo di conflitto molto frequente in Africa.

Questo però coinvolge anche un'azienda italiana, la Tampieri Financial Group Spa, holding familiare con sede a Ravenna che produce olio alimentare e energia rinnovabile da biomasse. Ed è per questo che una piccola delegazione di abitanti e attivisti rurali è partita dal Ndiaël per venire in Italia a perorare la propria causa: lunedì erano a Roma, ospiti dell'associazione Re:Common e di Action Aid Italia.

La vita è cambiata due anni fa, per gli abitanti del Ndiaël. Nel marzo 2012 il presidente senegalese Abdoulaye Wade ha emesso due decreti. Il primo «declassava» una zona di riserva naturale, togliendo i vincoli ambientali da un territorio di 26.550 ettari ora definito di «pubblico interesse» (quindi passibile di usi commerciali). Il secondo decreto stabiliva che di quel territorio, 20mila ettari erano dati in concessione per 50 anni alla società Senhuile per un progetto di coltivazione di semi di girasole; i restanti 6.550 ettari erano invece destinati a trasferirvi i villaggi che si trovano sul terreno della concessione: sono 37 villaggi, circa 9.000 persone – e circa 80 mila capi di bestiame tra mucche, capre e pecore.

Senhuile è una società costituita a Dakar nel luglio 2011; il Gruppo Tampieri è azionista di maggioranza (51 per cento), mentre il restante 49 per cento appartiene a Senéthanol S.A. , un'impresa nata appena un anno prima, luglio 2010, con capitali senegalesi e italiani. Il gruppo Tampieri ha un interesse comprensibile a investire in Senegal: garantirsi un approvvigionamento stabile della materia prima per produrre olio alimentare - in questo caso semi di girasole. Senhuile e Senéthanol sono legate da una compliata struttura di scatole cinesi, ricostruita dall'associazione Re:Common in un dossier.

Elhadji Samba Sow rappresenta il Collettivo dei villaggi del Ndiaël. «Erano villaggi legalmente riconosciuti», spiega: «Avevano allacciamenti all'acqua, scuole, alcuni presidi sanitari», e avevano il diritto d'accesso e di uso del territorio per il pascolo e per la raccolta di prodotti spontanei e legname. La vita del Ndiaël ruota attorno al lago de Guiers, la riserva d'acqua più importante della zona e forse di tutto il paese (non per nulla è una «zona umida» protetta da un trattato internazionale, la Convenzione di Ramsar); il bestiame circola lungo rotte tradizionali che conducono al lago, la cui acqua del resto permette anche una produzione agricola su piccola scala. «Ora hanno pianificato di lasciare 500 metri di terreno incolto tra un villaggio e l'altro, o tra questi e la zona in concessione a Senhuile. Ma chi conosce agricoltura e allevamento tradizionali senegalesi sa che questo non è possibile: equivale a dire che se ne devono andare», insiste Samba Sow.

Con l'arrivo di Senhuile dunque i pastori non hanno più accesso ai pascoli. Le testimonianze raccolte dall'Oakland Institute, un'organizzazione che ha sede in California e ha condotto una lunga ricerca nel Ndiaël, sono desolanti. «La conseguenza è che adesso il nostro bestiame si vende per pochi soldi a causa della terra occupata da questi uomini potenti con la complicità dello stato», dice un abitante di uno di quei villaggi, Ndialanabé. «Non abbiamo più aree di pascolo. Ci hanno lasciato solo questi pozzi, ma li vogliono togliere. Quando li toglieranno non sapremo più dove prendere l'acqua e saremo costretti a lasciare il nostro villaggio» (Oakland Institute, Surrendering our future. Febbraio 2014).

Infatti le famiglie cominciano a spostarsi in cerca di pascoli, dice Samba Sow: «Così nasceranno conflitti perché pastori e coltivatori entrano in concorrenza sulle scarse terre rimaste». L'allevamento tradizionale rischia di scomparire, aggiunge. Parla di villaggi che non hanno più accesso diretto all'acqua, perché le condutture dovrebbero attraversare il terreno della concessione. E poi, dei rischio sanitario per le persone e il bestiame: «Sorvolano con gli aeroplanini a polverizzare prodotti chimici sulle coltivazioni, ma così vanno a finire anche sui villaggi, a pochi metri».

Possibile che non sia stato offerto nulla a compensare quelle comunità? No, risponde Samba Sow: l'impresa ha trattato direttamente con il governo, «nessuno ha chiesto un parere alla popolazione locale». Bisogna dire che c'è un precedente: nel 2010 la Senéthanol aveva investito nella coltivazioni di patata dolce destinata a produrre etanolo, un agrocarburante, su 20 mila ettari ottenuti in concessione dal Consiglio rurale di Fanaye, non lontano dalla concessione attuale. La cosa aveva però provocato grandi proteste tra gli abitanti, la legittimità dell'accordo era stata contestata. Nell'ottobre 2011 due persone rimasero uccise in una manifestazione: il presidente Abdoulaye Wade allora incontrò i rappresentanti della popolazione e decise di annullare il progetto. Salvo, pochi mesi dopo, concedere agli stessi investitori (sotto una nuova società) altre terre, stavolta per decreto.

Di quel decreto non si conosce molto: non è noto qual'è l'affitto che Senhuile paga allo stato, ad esempio, o quale sia lo status giuridico di quei terreni. Il progetto stesso non è chiarissimo: nella versione iniziale (del 2012) si trattava di produrre semi di girasole (da esportare in Europa per la produzione di olio), ma ora pare che vi vengano prodotto mais per mangimi e semi di arachide. E' chiaro però che l'impresa ha il permesso di attingere l'acqua del lago – ma in una zona arida, estrarne acqua per coltivazioni intensive di quell'ampiezza non è sostenibile e il rischio è che la popolazione resti a secco.

I sostenitori del progetto parlano di posti di lavoro per gli abitanti. Solo lavoro precario e alla giornata, ribatte Samba Sow, e insiste: «Con noi non hanno negoziato nulla: forti del decreto presidenziale dicono “sono le nostre terre”, punto. Il governo ha mandato la Gendarmerie a proteggere le installazioni di Senhuile. Gendarmi e guardie della compagnia intimidiscono gli abitanti. Noi diciamo che la concessione va cancellata». Davvero, non sembra che ci sia terreno di negoziato.

Si dirà: investimenti come quello servono a modernizzare un'economia agricola arretrata. Ma in Senegal tre quarti della produzione alimentare è dovuta all'agricoltura «familiare», o su piccola scala, fa notare Elhadji Thierno Cissé, che rappresenta il sindacato rurale senegalese Cncs. E' vero che il contributo dell'agricoltura al Prodotto interno lordo è bassa (era il 20 per cento nel 1980 e il 14 per cento nel 2008). Ma è l'agricoltura su piccola scala che permette al 70 per cento della popolazione senegalese di avere qualche reddito, e copre il 63% del fabbisogno alimentare del paese: «Puntare tutto sui grandi investitori esteri distrugge questa agricoltura», dice Cissé.

Fatou Ngom, di Action Aid Senegal, aggiunge qualche cifra: dal 2000 al 2012 855 mila ettari di terre sono stati dati in concessioni a investitori per lo più stranieri, togliendone l'acesso alle popolazioni locali. E' questo che si chiama land grab, accaparramento di terre. Mariam Sow, che si occupa di agroecologia per Enda, stimata organizzazione non governativa dell'Africa occidentale, la definisce «la terza colonizzazione». E' per questo che la delegazione senegalese si trova in Italia: per fare appello a fermare l'investimento del Gruppo Tampieri nella regione del Ndiaël. 

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